Cosa e perché?

igordindia.it

Cosa e Perché?, si intitolava così il mio primo post e, riguardando indietro, potrei averlo scritto proprio oggi. Certo la faccia era un’altra, le riprese e le foto anche… Ma il senso, quello profondo, credo di averlo conservato sano e intatto.

Era il 7 luglio 2011 e con quel titolo iniziavo una lunga serie di racconti in cui in questi 3 anni e mezzo ho provato a condividere avventure, emozioni, paure, incontri, esperienze.

Mi avete letto, condiviso, seguito, preso in giro, commentato, supportato, criticato, aiutato e comunque fatto compagnia. Anche con voi sono cresciuto, e quando si cresce c’è un momento in cui è necessario rimettere le cose in ordine, almeno un po’. Oggi questo blog chiude i battenti e si sposta su www.igordindia.it, dove ho raggruppato anche foto, video e contenuti aggiuntivi.

C’è sempre un Perché? a motivare quello che faccio, il Cosa è vuoto senza il suo Perché?. Cercherò di continuare a raccontare i miei “cosa” e i miei “perché”, spero continuiate a farmi compagnia.

Ci vediamo di là?

The Yukon Blues in TV

Dal rientro dalla spedizione non ho avuto un attimo di respiro.

Il montaggio di The Yukon Blues  ( documentario + serie tv in quattro episodi per il mercato estero) mi ha occupato tutti i santi giorni per tutte le ore del giorno fino a oggi.. Ma ecco un primo risultato.

In Italia, The Yukon Blues andrà in onda su Deejay TV all’interno della bellissima trasmissione “Ai confini del mondo”.

Venerdi 19.12.2014 ore 21.10
DeejayTV (canale 145 di SKY e 9 di Tivù Sat)
Ecco il promo di Deejay TV

https://vimeo.com/114357935

 

Il blog diverrà quindi presto più attivo per la promozione del film e per la presentazione (nel 2015) della prossima spedizione in cantiere…

Durante il montaggio di “The Yukon Blues”

Tornato in Italia non è stato affatto facile ambientarsi e tornare a misurarsi con una realtà caotica e innaturale.

Ho scritto per LAVOCE di NY in merito a questo senso di non appartenenza…

http://www.lavocedinewyork.com/Nell-ecosistema-artificiale-di-Milano-un-duro-senso-di-non-appartenenza/d/8254/

 

Sono stati giorni molto intensi, ma è pronto finalmente il trailer della Serie TV “The Yukon Blues” che con Kobalt Entertainment stiamo montando per la distribuzione in Italia e all’estero.

 

Versione ENGL

 

Versione ITA

Toronto, Game over

Viaggiare verso Est non è stato semplice. Di questi incredibili 16.000 km in autostop (9000km dei quali solo del viaggio di ritorno) ben 6000km sono risultati un lento susseguirsi di passaggi corti e di notti passate a dormire vicino ai camion in sosta o con la testa poggiata su un tavolino di un fast food.

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I “flussi” qua vanno più verso ovest solitamente, da fine aprile a settembre, per questo mi preoccupava il fatto di attraversare l’Ontario, poiché è una provincia enorme e, per attraversarla, ci vogliono venti ore di auto, dal confine ovest a Toronto. Figurarsi con passaggi brevi…

Fortunatamente, dopo la notte in un McDonald’s a Regina e le innumerevoli ore bloccato a Winnipeg, ho trovato il passaggio risolutivo. Era un tizio piuttosto “particolare”, un camionista dell’Alberta in vacanza, con l’abitudine di farsi una bonga ogni ora, guidando senza cintura, oltre i limiti di velocità e spesso bevendo birra. Strano per un camionista canadese, seppure in vacanza. La cosa che più mi intimoriva era la quantità di marijuana che portava in una busta di plastica sotto al sedile. In Italia ci avrebbero buttato dentro di sicuro, se ci avessero fermato. Qua magari no, ma di un ennesimo interrogatorio a soli 1700km da “casa”, non avevo proprio voglia.

Mentre la BC era in fiamme, Alberta e Sasketchwan riarse, l’Ontario è ora piuttosto umido e ventilato.

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Ad accogliermi al mio arrivo, a Yorkdale (Toronto), la famiglia Pellerito, gli amici conosciuti l’anno scorso, quando tutto questo sembrava ancora un sogno irrealizzabile.
Improvvisamente è tutto finito. Sono riuscito a vivere l’avventura che desideravo, con tanti imprevisti e cambiamenti di rotta, e la solita domanda torna ora bussare: “che fare domani?”.
Sento già il forte contrasto tra la felicità del rientro e la malinconia del non essere più in strada o sul fiume, quando la mattina non sapevo chi o cosa avrei incontrato sul mio percorso, o dove bastava seguire la corrente per trovare un’isola deserta sulla quale riposare, ascoltando il canto del lupo o del coyote. Ma alla fine è giusto così. È una malinconia che conosco… è “the yukon blues”.

Vancouver, un atteso incontro

Nei Flats, Bill e Rob mi avevano promesso che se ne fossimo usciti illesi mi avrebbero invitato a Vancouver per un BBQ a casa loro. Sembrava un momento molto lontano che invece è arrivato prestissimo. Da Dawson sarebbe stato più facile autostoppare fino a Toronto, ma sono arrivato sulla west coast in un tempo decente, costeggiando il temibile fiume Fraser e attraversando il deserto appena fuori Boston Bar. Dopo che un pescatore di salmoni mi ha scaricato in periferia, Bill mi ha accolto con grande entusiasmo e portato nella sua bella casa di Maple Ridge, dove vive con la moglie e il cane.

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La vita qua è stata davvero “easy”. Cibo sano, giardino, birre fredde in frigo, chitarra, amici, cane e BBQ. Eppure girare in centro, il giorno del mio arrivo, è stato un incubo. Sebbene sia la città più vivibile al mondo, Vancouver mi è sembrata sovraffollata e terribilmente calda.

Oggi abbiamo fatto il BBQ anche insieme a Rob, come da promesso, ed è stato bello ricordarsi delle avventure vissute assieme.
Il nostro incontro è stato un caso, eppure…

Ho accettato l’invito di Bill e rimarrò fino a domani, perché la sua famiglia al completo si riunirà per una festa e i suoi parenti vorrebbero conoscermi, cosi come io voglio conoscere loro. Poi dovrò rimettermi in viaggio e coprire gli ultimi 4000 km che mi separano dalla mia ultima destinazione: Toronto.

Spero di passare dei giorni rilassanti sulla Transcanada, fa un caldo boia e non ho più voglia di cuocermi al sole come nel deserto alle porte di Boston bar!!

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Lettera aperta a Walter Bonatti

Caro Walter,
non ci siamo conosciuti direttamente, a meno che tu non ti ricordi di me al tuo funerale, quando ho incontrato Rossana e questo viaggio ha avuto inizio.
Sono di ritorno da una delle mie avventure più difficili, ispirata dalla tua esplorazione in questo mondo senza stelle. Molto è cambiato da quando sei passato tu cinquant’anni fa da queste parti. Immutati sono i canyon, le rapide, il tronchi affioranti, i gorghi spaventosi che fanno trepidare, i gabbiani impertinenti che ti attaccano quando sei vicino al nido, il tonfo dei castori indaffarati nel loro lavoro subacqueo, e poi gli orsi e gli alci con i cuccioli, sulle sponde e sulle innumerevoli isole del fiume.
Il tratto fino a Dawson, da una ventina d’anni a questa parte, è abbastanza frequentato. Diversi sono i tour organizzati alla portata di tutti. Con le canoe moderne, in tandem, neanche le Five fingers sono un grande problema ormai. Ci sono persino mappe dettagliate fino a Circle, guide in quattro lingue sullo Yukon e i suoi vari affluenti, e punti di ristoro più o meno ogni 300 km.
Più remoto è invece fino a Circle e, infine, molto più difficile e rischioso, l’ultimo tratto prima di Fort yukon, dove ti perdevi anche tu. Se il tempo è buono in realtà l’unico problema è l’orientamento tra le migliaia di isole, ma basta puntare una direzione con la bussola, pregando di non mancare la meta, e il pericolo è minimo. In caso di vento forte invece, il tutto si può rivelare un proseguire lento e angosciante. Come per te è stato il tratto più difficile del viaggio, per me è stato davvero arduo. Il vento ha fatto davvero un macello, non si arrestava mai, neanche la notte. Pensa che spazzava via le tende (la mia no perché è bassa e la picchettavo con paletti lunghissimi da sabbia!) e alcuni tedeschi sono rimasti bloccati per giorni su un’isola in balia delle intemperie.

Gli indiani non sono più concentrati nelle piccole tribù che avevi incontrato sulle sponde. Parlano ormai ottimo inglese, si muovono in motoscafo, hanno una comunità discretamente unita e stanno cercando di sopravvivere allo sterminio sociale che con alchool e droghe abbiamo introdotto, in un mondo che li ha visti vivere per 30.000 anni in totale comunione con il wilderness. Gli animali selvaggi non mi hanno mai dato fastidio, piuttosto l’uomo ne crea loro di continuo. Ho trovato una persona che si ricorda di te, Palma Berger di Dawson…dai che se ci pensi te la ricordi…guida turistica, di origine australiana, sul keno…Mi ha mostrato diversi luoghi che apparivano nel tuo servizio per Epoca. Sono cambiati, ma sono ancora là. Dawson stessa è ora molto turistica. George Hunter e Joe Castellarin, che ti hanno ospitato e portato sul Midnight dome, sono scomparsi da diversi anni, così come Clift Fairchild, il pilota di Fort Yukon. Questo pilota aveva una storia assurda che mi è stata raccontata dalla figlia! Ti ha detto che aveva fatto il supervisor per l’installazione dell’impianto idraulico dello Yankee stadium? Poi ha comprato un aereo e ha cominciato a fare il Bush pilot in Alaska! Ormai comunque non ci sono più questi voli per Old Crow…per arrivarci ho fatto proprio dei numeri! Ho dovuto lasciare la mia canoa, Rossana, a uno che mi ha dato il passaggio in motoscafo per raggiungere la cittadina sul Porcupine e filmare il gathering, che a te sarebbe piaciuto molto.

Il Porcupine era a volte impraticabile, anche in motoscafo, almeno all’andata.

In generale, mi è andata benino…solo sul lago e alle Five fingers ho rischiato grosso e poi, ricordi il tunnel di permafrost con gli alberi che sporgono come lance e che crolla di continuo? Ecco, ci sono rimasto bloccato sotto! Sentivo una vocina che mi rimproverava e mi incitava a togliermi da quella situazione…ne sai niente? Di solito l’incoraggiamento veniva più da una voce simile a quella di Rossana, mentre da parte tua mi ricordo molti cazziatoni, anche per un nodo sbagliato o per una gamella troppo vicina al fuoco. In alcuni momenti, tuttavia, mi sembrava che tu potessi vedere quello che vedevo io. Una sensazione molto potente!

Ho conservato la pagaia, anche io voglio appenderla al muro. Spero che l’odissea in autostop non ti abbia deluso, ma per me è una fonte inesauribile di storie e ne vale la pena. E poi si risparmia tanto sulla spedizione! Per i chilometri in meno in canoa sono certo che pensi che abbia fatto bene a non sfidare la sorte. Del resto quante volte nelle tue avventure hai preferito ripiegare che andare verso un pericolo certo? Finché c’è scelta…scegliamo la vita.

Un’altra cosa che ho capito è che, specie in solitaria, spesso mi creo delle paranoie inutili su fatti che non sono ancora accaduti. Si ha la tendenza a ingigantire i sentimenti e le paure, quando nella stessa situazione in compagnia magari ci sentiremmo tranquilli. La paura è spesso una proiezione nel futuro di eventi che potrebbero non avvenire mai.

Sai Walter, Rossana mi è stata molto vicina durante questi due anni di preparazione. Mi ha incoraggiato e dato consigli, come se fosse mia nonna. Che donna che hai trovato! Anche la vostra famiglia e i nipoti mi hanno aiutato moltissimo. Meglio di così non avrei potuto chiedere. Per questo progetto ho risparmiato facendo video, lavorato come bagnino, fatto la fame in Canada come lavapiatti, ho viaggiato più di 16.000km in autostop, sono rimasto bloccato in una bufera di neve in auto con un vietnamita, ho guidato 3500km con uno che è stato arrestato e rilasciato in quaranta minuti davanti ai miei occhi, sono stato interrogato dalla polizia, ho vissuto con gli indiani, visto uccidere e scannare degli orsi, conosciuto persone che resteranno per sempre nella mia vita e nei miei ricordi, ma soprattutto, ho conosciuto meglio me stesso, rapportandomi alla tua esperienza.

Quando ho visto la tua bara, qualche anno fa, ho pensato che fosse troppo piccola per contenere tutto quello che avevi fatto. Ma se ci pensi lo Yukon continuerà a scorrere in me, le tue montagne sono ancora scalate da giovani che leggono i tuoi libri e che hanno un rapporto con la roccia che non è fatto solo di record e numeri, ma di storie e di esperienze. Così come molti deserti e vulcani sono già nei sogni di qualcuno che sta lavorando sodo per dare materia alle proprie visioni.

Ho ancora tanta strada per tornare a casa, e non so cosa farò al mio rientro. È tutto incerto. So solo che scriverò questa storia, monterò il film, la racconterò ai bambini di Sport Senza Frontiere e a chiunque voglia ascoltarla.
Grazie Walter, per avermi ispirato, come Melville e altri hanno fatto con te. Grazie per avermi fatto diventare parte di un passaggio del testimone tra due generazioni così distanti,dell’avventura intesa come esperienza soggettiva, pura e sana (cerca di capire però che se uno prova a fare i numeri che facevi tu può trovare solo guai! Ma dormivi ogni tanto su sta canoa??).

Ti saluto Walter, magari avremo modo di parlarne di “presenza”…ma non è ancora il giorno.

Con affetto e stima
Igor

The Yukon Blues Cap 5, Un triste addio

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Non avrei mai pensato di dovermi separare da Rossana. Capita, quando si vivono delle esperienze particolarmente intense, di credere che non finiscano mai. Alcune migliaia di chilometri fa, non ricordo i giorni e nemmeno le date, avevo promesso alla mia canoa che niente avrebbe potuto dividerci e che, piuttosto, all’arrivo, l’avrei affondata, restituendola al fiume come vuole la tradizione dei nativi.

Ma la realta’ si cura poco delle promesse. Lo Yukon ha chiaramente detto “da qui non si passa”, inutile pretendere di piu’. Non potendo quindi ridiscendere il Porcupine e non potendo remare fino al prossimo punto di uscita utile (Yukon Crossing), siamo rimasti bloccati per due settimane in un vicolo cieco. Fort Yukon e’ il punto piu’ a Nord di questo maestoso corso d’acqua, e da qua si puo’ solo volare su un aereo minuscolo per nove passeggeri, o sperare che una chiatta parta per Circle e caricarci sopra la canoa, per poi saltare su un camion diretto a Fairbanks. Un costo enorme e un travaglio infinito.

Ero gia’ seriamente a corto di soldi e non potevo perdere il gathering per nulla al mondo. Rossana rimarrà a Snok.

Mi sono vergognato come un ladro, ma non avevo molta scelta. La sua fine avrebbe potuto essere tremenda, vandalizzata o rubata da qualche testa calda, adoperata per chissa’ quale scopo losco. Snok la usera’ per andare a caccia e Rossana continuera’ a navigare ancora per molto tempo, lontanissima dal posto in cui ci siamo conosciuti per la prima volta: il piccolo canale davanti al Robert Service Campground, che allora mi sembrava un tratto difficile e insidioso…Quanta acqua e’ passata sotto di noi cara Rossana, quante rocce acuminate, tronchi spezzati, salmoni diretti a sud, e chissa’ che altro!

Mi hai salvato la vita due volte, e tante altre forse non me ne sono neanche accorto… grazie.

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Al ritorno da Old Crow, due giorni fa sono riuscito a raggiungere Fairbanks su una sorta di bushplane. Con me ha lasciato Fort Yukon anche Ralf con il suo cane Luna, che erano arrivati con altri tedeschi e avevano messo base nel giardino di Jeenie Alexander e della loro fantastica famiglia. Senza l’aiuto di queste persone nessuno di noi avrebbe avuto modo di dimenticare la disfatta nei Flats dello Yukon. Specialmente il buon Bernt, che del suo viaggio verso il mare di Bering ne aveva fatto una pericolosa ossessione. Lui si e’ unito ai ragazzi diretti verso un altro fiume piu’ a ovest e ha forse digerito meglio quello che deve essergli sembrato un momento di fallimento totale. Chiunque sia arrivato quassu’ con quel tempo puo’ solo essere felice di non essere ancora sull’acqua.

Ralf non vede l’ora di ricongiungersi ad Anchorage con la sua famiglia in vacanza e andare a pescare a Beaver Creek. Vuole che i suoi figli si ricordino di questo viaggio nel wilderness. Gli ho detto che si deve preparare al fatto che forse uno di loro tornera’ sullo Yukon per vivere quello che ha fatto suo padre su un improbabile gommone gonfiabile, magari fra venti o trent’anni.

Ne abbiamo parlato mentre mi accompagnava a Tok con l’ auto noleggiata per il suo nuovo piano di viaggio. E’ stato bello attraversare, comodamente seduti, le immense foreste che circondano la Alaska Highway. Ma Tok purtroppo non e’ un bel posto per fare autostop.

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Mi ci sono voluti due giorni per trovare un passaggio per Dawson, sotto la pioggia incessante e con il solito vento freddo che spazza la strada. Pare che abbia piovuto tantissimo quest’anno, e che le temperature siano basse a tal punto che si aspetta la neve da un momento all’altro.

Finalmente il Dio della strada mi ha regalato un passaggio diretto a Dawson.

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Tornare in questa città è sempre incredibile, un evento speciale. Stavolta, mentre attraversavo le strade polverose stracarico di roba, alcuni amici mi hanno fatto festa: “Pensavamo fossi morto!” oppure “Ti abbiamo seguito su internet amico! ottimo lavoro laggiù! Che bello rivederti sano e salvo!”.

Che sia questo il primo passo del ritorno a casa? Che sia vicino il momento della riflessione su ciò che ho appena realizzato? Sembrano una sciocchezza i 3000 km che mi separano da Vancouver e gli altrettanti rimanenti ancora per Toronto.
Ma adesso ho solo la strada davanti a me, nulla di quello che mi aspetta è ancora chiaro e definito. Non contano più i chilometri, le attese, la pioggia. Sono praticamente al verde, ogni giorno del rientro ha un percorso e un destino incerto, ma sono felice. A sud fa già più caldo, a nord nevicherà a breve…è proprio tempo di tornare a casa.

Tra i Gwich’in del Porcupine ai confini del mondo

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Dopo alcuni felici giorni a Fort Yukon, in compagnia di altri paddlers e di una straordinaria famiglia che ci ha accolto e premesso di piazzare le tende in giardino, ho cercato in tutti i modi di raggiungere Old Crow e terminare le riprese della parte più significativa del documentario e della ricostruzione di ciò che è riportato nel libro di Bonatti. Non ci sono più voli interni per questa località, tranne che da Fairbanks. Un bush pilot si potrebbe anche trovare, ma non chiederebbe più i 300 $ che Clift Fairchild chiese a Bonatti per volare sul Porcupine (a proposito, ci sono ancora i suoi figli a Fort Yukon e mi hanno mostrato le foto del suo aereo). Oggi la spesa si aggira sui 2500$ a/r. Via acqua invece, ci si impiega una giornata intera, se si va a manetta con un 115 CV montato su uno scafo di metallo che fa più o meno 40 km/h. Ed è esattamente quello che ho fatto, grazie a un giro di telefonate che Stef, figlia di uno dei leader del villaggio, ha effettuato per aiutarmi a documentare una delle più importanti manifestazioni dei nativi di questa zona: il Biennal Gathering.
Mi ha quindi trovato un passaggio last minute con un certo Snok, un membro della tribù dei Gwich’in.
Snok parla poco ed è considerato un Bush man di quelli tosti. Sembra uscito da un film western. Sa accendere un fuoco anche sotto la pioggia in cinque minuti e con un solo fiammifero (senza nessuna esca artificiale), caccia e pesca con grande abilità e si sta costruendo da solo un cabin in mezzo al nulla, a due ore di motoscafo da Fort yukon.

Con noi c’era anche Josh, un ragazzo che ha fatto fuori due orsi davanti ai miei occhi, sparando dalla barca. Non ho per nulla apprezzato la cosa. Josh ha freddato un esemplare giovanissimo (due anni circa) e l’ha fatto a pezzi sul posto per conservarne la carne. Il poveraccio stava attraversando a nuoto il fiume ed era un bersaglio troppo facile per un cecchino esperto con un “.300” tra le mani. Il cacciatore ha centrato poi anche un black bear, troppo grosso da caricare in barca e, dopo essersi accertato di averlo ucciso, è tornato a bordo a mani vuote. Spero torni a prenderlo presto, perché gli altri membri della tribù si infurierebbero, sapendo di un giovane che spreca tanto ben di Dio. Gli orsi sono animali pacifici, che non mi hanno mai dato problemi durante il viaggio, e vederli uccidere così, seppure per questioni legate alla carne e a tutto ciò che un animale così grande può fornire, mi ha lasciato davvero sgomento.

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Il Gathering a Old Crow invece è stato eccezionale. Unico europeo presente, sono stato accolto dalla comunità Gwich’in con grandissima ospitalità, ricevendo cibo e assistenza e ho potuto piazzare la mia tenda davanti alla vecchia chiesa con vista sul Porcupine.

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Questo raduno tra tutti i membri della tribù (discendenti degli Athabaska) si svolge ogni due anni circa e dura almeno una settimana. Le discussioni hanno come tema principale la tutela delle proprie origini, la lotta contro le multinazionali che avvelenano le risorse del territorio (impedendo la pesca del salmone e distruggendo i pascoli dei caribou), cosi come le strategie da applicare per il futuro. Grande rilievo (e un po’ me lo aspettavo) ha avuto lo sconvolgimento del clima che è in corso ormai da quindici anni. Tante le voci in campo, sia degli “elders”, i più anziani, sia dei giovani pronti a continuare la lunga battaglia per la sopravvivenza.
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La conoscenza dei Gwich’in del wilderness e delle sue risorse è incredibile e viene tramandata di padre in figlio dalla notte dei tempi. Sanno trovare in natura qualunque tipo di medicinale, cibo, informazione sugli spostamenti dei branchi di caribou o degli alci (per esempio osservando il volo dei corvi che, in cambio di una “percentuale” sul bottino, volano bassi con un’ala mezza piegata, segnalando la preda al cacciatore) e ogni materiale utile a costruire gli indumenti per il duro buio inverno artico.

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I Gwich’in sono grandi oratori, forse un po’ prolissi, ma molto poetici e teatrali. Amano la danza al suono del “fiddler” (violinista) che suona melodie di origine scozzese, importate dai primi “trappers” e minatori provenienti dall’Europa, nel secolo scorso. Ma nell’arena di Old Crow, i nativi hanno anche fatto vibrare l’aria con potenti tamburi di pelle, che, accompagnati da canti di battaglia, mi hanno portato lontano nel tempo con la fantasia.
A Bonatti sarebbe piaciuto tanto questo evento…

…Continua

Fort Yukon, Alaska Pt.2:Cinque giorni in balia degli elementi

Il giorno dopo la situazione peggiora. Secondo me dovremmo aspettare, mentre i ragazzi insistono a voler proseguire. Ho un brutto presentimento, ma effettivamente non abbiamo scelta. È un fenomeno anomalo che potrebbe durare settimane e impazziremmo a rinanere fermi come dei naufraghi. Non facciamo neanche in tempo a uscire dal canale che vengo sbattuto da una raffica sulla spiaggia e non riesco più a distaccarmi, nonostante tutti i miei sforzi. Mi arrendo, dobbiamo fermarci di nuovo. I canadesi sono costretti invece sulla sponda opposta. Li vedo spuntare tra la vegetazione dopo alcuni minuti, a piedi. Gesticolano mandandomi un messaggio preciso: “Rimani dove sei! Non provare a traghettare! Ci accampiamo qua!”.

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Il fiume s’ingrossa ancora, piove e la spiaggia dove mi accampo è un trubine di sabbia. Cade un albero in acqua proprio nell’isola accanto alla mia. Monto la tenda, la avvolgo nel tarp e cerco di mettere in sicurezza Rossana. Per fortuna lei è bella pesante e per spazzarla via ci vorrebbe un tornado. La situazione è ora sotto controllo e possiamo riposare alcune ore.
Una domanda ci perseguita: “A quanti chilometri saremo da Fort Yukon?”. Guardo e riguardo la mappa, ho una vaga idea, ma non ci sono punti di riferimento e…le mappe topografiche a disposizione sono vecchie di quarant’anni. Andra’ bene, il fiume ci portera’ avanti.
Bill mi chiama in nottata quando il vento si calma un po’: “Proviamo a guadagnare chilometri adesso!”.
Vaghiamo quindi per paludi e canali per circa quattro ore. Identifico un cabin sulla mia mappa, che sia proprio quello che vediamo sulla sponda sinistra? Uno scorcio di tramonto meraviglioso si intravede tra le nuvole e ci illude che sia finita, ma poi un’atmosfera lugubre ci avvolge e ci troviamo in un cimitero di tronchi sommersi, che si vedono appena. Invito i miei compagni a campeggiare nuovamente e a ripartire in giornata. Troviamo una spiaggia fangosa e un’orda di zanzare a darci il benvenuto. I ragazzi sono evidentemente stressati e ne hanno abbastanza. Niente Bering Sea per loro, il delta è largo 40 miglia e rischierebbero di trovare onde di due metri. Io sono sereno, ma sono cosciente del pericolo evidente che vedo adesso. Queste condizioni sono davvero un tentare la sorte, è il clima di settembre. Ma non possiamo mollare prima di Fort Yukon! Devo assolutamente trovare questo villaggio di nativi. Se lo passassimo ce ne accorgeremmo solo perché il fiume scorre poi verso sud ovest…ma il prossimo punto di uscita potrebbe essere Yukon Crossing a circa 250 km di distanza, che con questo tempo potrebbe richiederci una settimana!

Terzo giorno nel falts. Decidiamo di unire le barche, legandole a prua e poppa. Creiamo così una sorta di catamarano, impossibile da rovesciare, ma che imbarca decine di litri d’acqua! Le onde “rimbalzano” su Rossana e mi innaffiano come una pianta. L’acqua mi arriva ormai sopra le ginocchia.

Facciamo una fatica boia a tenere il “catamarano” dritto nel main stream. Il vento è teso e Rob, seduto a prua, può fare la differenza solo se vogliamo girare a destra. Per il resto è tutto sulle braccia mie e di Bill che ansima come un toro, in preda alla fatica. A volte dobbiamo infilarci in canali di acqua morta per riposare o, in caso di emergenza, non avremmo le energie per timonare correttamente.

Ennesima notte su un’isola. Una bella spiaggia, ma il vento danneggia la tenda di Bill e la sabbia rende inutilizzabile le cerniere di quella di Rob. Sento che Fort Yukon è vicina. C’è della schiuma in acqua e da lontano a volte sentiamo una sorta di ronzio, simile al passaggio di un motoscafo. Non possiamo mancare il bersaglio rimanendo a destra e puntando a Nord Est, me lo sento.

Il quinto giorno smontiamo le tende e proseguiamo in condizioni piuttosto normali. Piove leggermente, il fiume si è placato parecchio.Dopo tre ore circa, scrutando l’orizzonte vedo qualcosa che sembra un albero altissimo…è l’antenna radio di Fort Yukon! Esultiamo pieni di gioia, e ci manteniamo sulla destra.

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Appaiono delle case colorate. Ce l’abbiamo fatta. Sapremo dopo che tutti quelli in canoa diretti a ovest si sono fermati qua. Nessun gruppo, tantomeno solo paddlers, proseguiranno per il mare di Bering, nella prossima settimana almeno.

Ma cosa sta succedendo esattamente al clima di questa regione? Cosa è rimasto a Fort yukon del passaggio di Bonatti? Chi sono gli altri sventurati che sono giunti qua su una canoa nei giorni scorsi?

A breve, sul blog.

 

 

 

 

 

 

 

Fort Yukon, Alaska Pt.1: Dove il vento piega la foresta

Lasciare Dawson City e’ stato emozionante. Alcuni amici mi hanno raggiunto al dock mentre caricavo la canoa, per un saluto affettuoso.” Gli addii nel Grande Nord sono sempre molto intensi”. La mattina della partenza, Holly, barmaid del Pit, mi aveva indicato due signori seduti al bancone: “Hey Igor, questi due gentlemen sono canoisti che vanno fino al mare di Bering, magari potete fare un pezzo assieme”. Holly non poteva sapere che questa semplice indicazione avrebbe cambiato, in meglio, il destino mio e dei due misteriosi paddlers che stavano dando fondo alla bottiglia dopo i primi settecento chilometri del loro lungo viaggio. Rob e Bill, baldi sessantenni di Vancouver, le stavano raccontando che questa spedizione era un sogno nato dalla loro prima pagaiata assieme sullo Yukon nel 2010 (da WH a Dawson) e che avevano anche raccolto 7000 dollari per l’associazione “Make a Wish”, che esaudisce i desideri di bambini malati, considerati ormai terminali.

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Con loro ci siamo ritrovati, per caso, su un’isola appena fuori il villaggio fantasma di 40 Mile (83km a nord di Dawson). Nei giorni seguenti, pur pagaiando da solo, li ho ritrovati con piacere durante la sera, e abbiamo potuto festeggiare la buona giornata con un po’ di Fireball (liquore dolce locale).
La nostra media, nonostante il solito fastidiosissimo vento pomeridiano, era circa di 80/100 km al giorno, coperti da loro in una decina di ore e da me in circa undici/dodoci.

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In due giorni eravamo quindi gia’ a Eagle, attraversando gli ultimi canion dello Yukon canadese ed entrando in Alaska. In quattro giorni e mezzo eravamo a Circle, dove il fiume diventa largo piu’ di un miglio e dove cominciano i Flats. Da qui parte una vasta area (grande piu’ o meno come la Pianura Padana) in cui lo Yukon misura fino a 3 km in larghezza e orientarsi è stato difficile anche per Bonatti, date le migliaia di isole e canali, che spesso diventano scoraggianti paludi popolate solo da castori e zanzare, e dove montagne di tronchi spezzati si ammassano su secche e spiagge. Uno spettacolo davvero inquietante, in cui il fiume sembra ricordarti quanto possa essere temibile durante una piena, e quanto sia fragile tu in questa dimensione primordiale.

Io, Bill e Rob, sapevamo bene che il vento avrebbe potuto causare problemi e, poiche’ obiettivamente la loro mappa era poco precisa (stampata da Google Maps) e non avevano neanche una bussola (…!) abbiamo deciso di attraversare insieme questo labirinto che si rivelera’ un massacro di cinque giorni, in cui il nostro unico scopo sarà sopravvivere, pur proseguendo, vittime di una condizione metereologica assolutamente anomala e straordinaria.

Approfondiro’ il discorso meteo nei post successivi poiche’ questo fenomeno e’ davvero interessante. Ne sto parlando con i nativi di Fort Yukon , seriamente preoccupati per il cambiamento climatico repentino, e vorrei darvi nozioni piu’ precise e dettagliate.

 

Ma torniamo ai Flats.
Normalmente sono considerati una zona desertica di transizione tra la Taiga e la Tundra dei Caribou. Il fiume scorre ancora veloce, l’acqua e’ leggermente piu’ calda e la vastita’ del letto, come ho detto, crea una gran quantita’ di zone ristagnanti separate da isole di ogni forma e dimensione. Poco a sud di Fort Yukon, citta’ con il record di temperatura massima e minima in Alaska (100 e -80 farenheit), si attraversa il Circolo Polare Artico, ma il clima estivo e’ notoriamente afoso e il fiume considerato una “easy and nice paddle”. Obbligatorio fermarsi, come faceva Bonatti, durante i temporali, ma in generale la notte si viaggia bene e la pioggia è considerata un evento raro. Anche in condizioni normali comunque, non sapere leggere una mappa o usare la bussola potrebbe causare problemi seri. Perdersi del tutto è praticamente impossibile, la corrente prima o poi si trova, ma si rischia di incappare nella Halfway Wirphool (zona di correnti vorticose da attraversare nel canale più vicino alla sponda sinistra) o di passare troppo lontano dalla città di
Fort Yukon (sulla destra, dopo un labirinto di canali enormi) e non poter uscire dal fiume per altri 200 km. Chiaramente anche il GPS ( che noi non avevamo per scelta) puo’ risultare un oggetto piuttosto inutile in questo caso. Non esiste una mappa aggiornata delle isole dei flats, poiche’ a ogni icebeakup se ne creano di nuove e ne spariscono altrettante. Unica soluzione, come mi disse Rossana una volta, è puntare la direzione del punto d’arrivo e remare.

mecircle

Dal pomeriggio in cui abbiamo lasciato Circle, siamo stati testimoni di un susseguirsi di temporali, brevi e intensi, vento che sfiora i 30 nodi, ingestibile su una canoa canadese da 17 piedi, specie se da soli a governarla. Il clima che si ha di solito a settembre…

Eravamo gia’ abbastanza esperti nel gestire le nostre imbarcazioni ed evitare di essere risucchiati dai vari canali (larghi anche il doppio del Po), anche con vento di una discreta forza, ma proprio per questa congnizione di causa e senso di sicurezza acquisito, abbiamo rischiato piu’ di quanto avremmo dovuto, trepidando per diverse ore al giorno, e capendo che stare nel canale principale era un tentato suicidio, ma sarebbe risultato pericoloso anche costeggiare!

Bonatti scriveva a proposito delle sponde dei flats: ” Le alte rive argillose dello Yukon sono state corrose dalle correnti estive gonfie d’acqua, ma le strutture di antico ghiaccio hanno resistito e appaiono modellate come marmoree arcate di assurde cattedrali su cui si regge e prolifera la foresta. Costeggiando capita di passare, per chilometri e chilometri, accanto a queste foreste sospese su arcate ghiacciate e sporgenti anche per dieci metri.[…] Ciò resta tuttavia un serio pericolo: da un momento all’altro tutto può crollare”.

Inizialmente abbiamo fatto quello che era giusto in caso di bufera: approdare sulle isole e aspettare. Sebbene montare le tende con il vento e la sabbia negli occhi non fosse piacevole, nonchè fosse disgustoso mangiarsi mezza spiaggia ogni volta che si provava a cucinare fuori dalla tenda, eravamo felici di scampare alla furia delle acque.

Per due giorni abbiamo provato a guadagnare chilometri la notte, assaliti dalle zanzare ogni volta che entravano in una palude e in preda alle paranoie legate all’orientemento.
Poi il vento ha cominciato a montare seriamente, al punto che non riuscivo più a guadagnare un centimetro in avanti, nonostante la corrente e le pagaiate. I miei amici, in tandem,
potevano sicuramente controllare il mezzo meglio di me. Spesso non riuscivo neanche a riportare in avanti il remo dopo averla estratta dall’acqua per via del vento.
D’un tratto ci troviamo a costeggiare le muraglie di permafrost che cadono a pezzi, menzionate da Bonatti. Il fiume fa una grande curva a sinistra e cominciamo a costeggiare perché la situazione comincia a fare paura. “Troppo vicino alla riva Igor, rischi di finire sotto una torta di terra con un albero per ciliegia”, mi diceva una vocina nella testa.

precrash

Puntuale come un orologio svizzero arriva, nel momento peggiore, la raffica di vento. La prua di Rossana si gira quindi inesorabilmente e mi ritrovo di traverso a dieci metri dalla riva in balia degli elementi. Le provo tutte: pagaio a sinistra dando “pancia” alla corrente, poi a destra per traghettare in qualche modo, ma niente. Mi viene un’idea: pagaiare all’indietro. Con grande fatica guadagno qualche metro, finché un ritorno di corrente non mi risucchia sotto una delle arcate e mi spinge contro un tronco. Acquisisco quello che Bonatti chiama uno “stato di grazia”, che per me invece si traduce in “mi cago addosso, ma con stile”.

Rimango dunque qualche minuto ad aspettare che mi venga un’idea, concentrato ad analizzare la situazione. Davanti a me il fiume scorre rapido e fangoso, il vento tiene Rossana contro la parete di permafrost che mi pende sulla testa e, a poca distanza, vedo Rob e Bill in difficoltà che pagaiano verso un’insenatura, sparendo dalla mia vista.
Fischio un paio di volte con il fischietto di emergenza per richiamare la loro attenzione, ma non mi possono sentire. Faccio allora pressione sul tronco per spingermi nuovamente nella corrente. Il permafrost intorno a me è abbastanza solido, ma ne vedo cadere dei pezzetti più a monte e mi preoccupo.
Rossana mi porta via dai guai e come un missile passo l’insenatura e approdo su una striscia di ghiaia dove i ragazzi mi attendono preoccupatissimi. “Mio Dio ragazzo!! Eravamo pronti a chiamare i soccorsi! Eri dietro di noi e sei sparito per un bel po’! Sai che ti dico? Ti sei appena meritato un Rum e Cola!”. Torniamo in acqua per trovare un’isola decente per accamparci e passiamo la notte in tensione. Il vento si ostina a soffiare forte anche nelle ore serali. Maledizione!

…continua a breve

sandstormFLATS


Sharks palermo, igor d'india

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About me

Igor D'India Freelance Videomaker Chi sono, cosa faccio, perchè non me ne sto a casa? Agli inizi ho effettuato reportage in zone di guerra (Bosnia, Caucaso, Sahara Occidentale ) o poco conosciute come la “finca” cubana nella regione di Guantanamo. Qualche passaggio in Asia e Africa con una vecchia Y10 e un equipaggio di folli (in senso positivo) ha arricchito il quadro delle avventure in luoghi non proprio raccomandabili. Queste esperienze sono state per me una formazione indispensabile per le avventure venute in seguito, come la Marsala-Torino in bici per i 150 anni dell'Unità d'Italia, la risalita a piedi del martoriato fiume Oreto di Palermo, il mese in isolamento in una grotta profonda 25 metri nel Monte Pellegrino (Pa) e l'attraversamento del Canada in autostop in inverno. Lo scopo dei miei lavori è spesso raccontare una spedizione (solitaria o in team) o un importante avvenimento verificatosi nel luogo che si attraversa, con pochi a disposizione. Lo stile tende a essere quello degli esploratori/documentaristi di un tempo: imprese difficili con mezzi improbabili. Forse non sarà rimasto niente da esplorare, ma si possono fare esperienze straordinarie anche dietro casa se si affrontano in un certo modo. Supporti tecnologici che fanno "il lavoro per te", ad esempio, possono contaminare l'approccio onesto all'esperienza e rovinarne il senso. Dove si è da soli davanti all' ignoto e dove si pagano cari gli errori commessi, il successo (senza trucchi) così come il fallimento, garantiscono una maturazione personale più rapida delle esperienze ordinarie. Se poi le cose vanno male o è colpa tua o dell' imponderabile. In tutti i casi ci si trova sempre a dire "ma chi me lo ha fatto fare?". I ricordi te li godi dopo, davanti a una fresca birra con gli amici, o davanti a una tastiera, quando metti nero su bianco l'accaduto, tra il sorriso e la nostalgia.

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